La forza delle categorie tratteggiate da Mark Fisher spesso deriva dalla destrezza dello studioso nel maneggiare gli strumenti psicoanalitici, ripiegandone i lembi come fossero origami e orientandone la funzione in senso sociale. Una metropoli abbandonata può certo rappresentare l’allegoria angosciante di una psiche prostrata (e del resto nel corso della storia la metafora architettonica è un topos frequentatissimo per rappresentare la mente umana); è possibile, però, anche decentrare la prospettiva e interrogare la figura dal lato dell’agentività: “Che cos’è avvenuto – si domanda Fisher in The weird and the eerie (minimum fax, 2016) – per originare quelle rovine, quell’assenza? Che genere di entità è coinvolta? … Che tipo di agente opera in questo caso? Ed esiste veramente un agente?” (p.11) Derivata del perturbante di Freud, la sensazione di eerie si impone laddove “c’è qualcosa dove non dovrebbe esserci, o … non c’è niente dove invece dovrebbe esserci qualcosa.” (p.72) In quanto potente innesco inferenziale e diegetico, si tratta di una sensazione che una certa letteratura di genere si sforza di suscitare nel lettore, salvo poi spesso infrangersi rapidamente contro la zelante ricostruzione di nessi e didascalie, contro lo scioglimento risolutivo del plot della letteratura di consumo che scioglie le atmosfere eeire in semplici immagini distopiche.
Il mondo che evoca Warax, ultimo titolo di Pavel Hak uscito in traduzione di Ugo Fracassa per Delvecchio editore, al contrario, è eeire fino in fondo: la circolarità simbolica che pone l’ignoto a principio e a fine delle trame convulse (e talora schiettamente pulp) del testo traccia un cerchio aperto, i cui lembi non si annodano in alcuna centratura stabile. Nessuna rassicurazione, nessun fabula docet, solo la durezza scarna di una prosa ansiogena, che si affanna a rincorrere il ritmo incalzante delle vicende.
In quale tempo, in quale mondo si svolgono i fatti? Alcuni segni riconoscibili del genere fantascientifico (per esempio la verticalità metropolitana – tipo Blade runner – e i deserti postapocalittici à la Mad Max, per intendersi) farebbero pensare al futuro, eppure le tecnologie al centro delle speculazioni affaristiche e delle scene di guerra sembrano obsolescenti. Sensori, televisioni, armi “intelligenti”: un paccottiglia analogica in gran parte superata o radicalmente trasformata dagli sviluppi del digitale. L’attrito tra il tempo a venire e l’anacronismo tecnologico ha un effetto straniante agli occhi di un lettore contemporaneo: siamo in un futuro anteriore, nel tempo impossibile che segue un recente passato. Il disallineamento temporale non si esaurisce nemmeno a considerare che il libro è uscito in Francia nel 2009 (Seuil), ma certamente esce rafforzato dagli anni trascorsi prima della sua traduzione, come forse avviene per molte narrazioni fantascientifiche (benché, in realtà, potremmo interrogarci a lungo sull’appartenenza di Warax al genere).
Il pianeta terra è ridotto a deserto dai disastri ambientali attribuibili – anche se, chissà, la compromissione ecologica è uno spettro alluso in molti brani – alla guerra semipermanente che vediamo in azione senza capirne esattamente le cause e gli scopi. Un impero moderno del bene, molto simile al grumo di interessi, persone, mezzi, istituzioni che vediamo all’opera nel capitalismo occidentale contemporaneo, si contrappone ad una guerriglia armata “terroristica”, che ricorda gli avversari – o meglio il racconto propagandistico che ne fecero i media – degli USA nelle guerre mediorientali dall’inizio degli anni ‘90 in poi: Iraq-Kuwait, Afghanistan, ancora Iraq.
Ed Ted Warax, magnate finanziario del prosperoso settore bellico, tenta di portare a termine un ultimo, gigantesco accordo che permetterebbe di saldare interessi militari, settore delle telecomunicazioni e politica. Ossessionato dal perfezionamento tecnologico della guerra e dalla completa trasparenza geografica (“Supervisionare, registrare tutto ciò che accade sulla superficie del globo terrestre” p 36), lo cogliamo spesso mentre, invisibile, osserva la città dall’alto del suo grattacelo (al “centro nevralgico del pianeta” p 9), in un sogno voyeristico postumano di coincidenza tecnologica con l’astrattezza dello sguardo panottico. Puro sguardo per una guerra ideologicamente pura, il bene che si incarna per tautologia: “Bene e male non erano vuote nozioni. Bene e male si lasciavano definire. Ed Ted Warax saperva dove fosse il male. Poiché egli incarnava il bene.” p 57
Più in basso, nei gangli della megalopoli, Preston, imprenditore non proprio di specchiata onestà, è in caduta libera, protagonista noir di una trama lynchana surriscaldata da alti tassi di hard boiled: feste di notabili in cui tenta di raccattare un qualche incarico, misteriosi inseguimenti, agguati, sesso, sostanze, alcol. La sua parabola discendente lo condurrà ad agitarsi convulsamente nella megalopoli durante un attacco batteriologico e infine a cadere vittima di un complotto che lo toglie di mezzo.
Contrapposte a queste due prime linee narrative sono le vicende di FD21 e del “branco”. Entrambe vengono dal mondo desertico fuori dagli spazi urbani, verso i quali però si muovono, attraversando confini e brutalità poliziesche. Un gruppo di migranti irregolari, il branco, varca rocambolescamente il confine e cerca una vita degna in città, forte della propria solidarietà collettiva. Si scontrerà con le logiche implacabili del lavoro di fatica e precario: prima offrendosi sulla piazza dei caporali, poi divenendo a sua volta, con discreto – e moralmente discutibile – successo, intermediario tra committenti e lavoratori. L’ascesa non durerà a lungo e si concluderà con una trappola organizzata probabilmente da qualche organizzazione criminale concorrente nel mercato del lavoro: anche in questo caso, però, il lettore è lasciato nella condizione di poter solo ipotizzare gli agenti di questo destino. FD21, infine, è forse il personaggio più eerie: non se ne conosce il nome, non si sa chi sia né si è al corrente della catena causale che l’ha portato a risvegliarsi, dimentico di tutto, e a vagare in mezzo al deserto. Guidato dal solo obiettivo di sopravvivere, si confronta con l’urgenza dei bisogni umani fondamentali: bere, nutrirsi, ripararsi. È tabula rasa: su di lui si proietta l’immagine di una disperata evoluzione umana reloaded, una sorta di seconda possibilità dopo il disastro (il primo capitolo dedicato a lui racconta degli sforzi per mettersi su due piedi: “Stazione eretta: innesco dell’avventura HOMO SAPIENS” p. 17). Nella scena finale, arrivato in una città sconvolta da crolli e distruzioni, lo seguiamo, sfinito, mentre si perde nei cunicoli della metropolitana. Ad un bivio, FD21, con un gesto che ricorda qualche suo ominide progenitore, scaglia una pietra contro la parete: “uno scintillio rischiarò uno spettro che balbettava parole incomprensibili, con le quali sosteneva di essere sopravvissuto al cataclisma che aveva sterminato il genere umano: la terra bruciata, lacerata da crateri e crepacci, era il teatro di quell’assenza di vita (asteroide perso nello spazio interstellare ormai disabitato).” p. 222. Poi, “richiamò tutte le sue forze e, guidato da una corrente d’aria che pareva animare l’oscurità, riprese a camminare.” L’evoluzione umana incarnata da FD21 giunge dall’oblio e approda alle tenebre.
Le quattro differenti linee narrative parallele multifocali, coeve ma non necessariamente simultanee (che ricordano quelle del precedente Sniper, Tristam, 2002, poi tradotto in italiano da Silvia Contarini per Transeuropa e pubblicato nel 2014), non sono mai direttamente intrecciate e comunicano tra loro solo per allusioni, notazioni di contesto, personaggi intermediari. Si alternano in brevissimi capitoli con rotazione convulsa ma regolare. Perciò il lettore è colto da stupore allorché, a circa metà del testo, vede scomparire la prospettiva “dall’alto” di Warax, sostituita da una narrazione in prima persona delle operazioni di un gruppo di militari nel corso di un rastrellamento terrestre: si passa dalla pianificazione teorica all’applicazione pratica delle tecnologie di guerra. Un passaggio che sconvolge non solo la voce narrante, ma che rimette in discussione il sogno tecnologico di una guerra perfetta e più in generale la possibilità di una prospettiva progettuale nel caos del presente (o insomma di quel particolare tempo romanzesco).
Scritto in una prosa talora disorientante pnella sua sintesi nominalistica, che sembra incendiare gli eventi mentre li racconta, il testo di Warax mette il lettore di fronte a temi che riguardano uomini e donne contemporanei in quanto appartenenti alla specie Homo Sapiens: il rapporto umano con la tecnologia, l’uso della violenza evolutosi nelle arti infami della guerra, la condizione biologica che torna a premere proprio nei momenti in cui se ne paventa l’emancipazione. Tutte questioni che si leggono nel romanzo di Hak e nella realtà contemporanea.
Giacomo Tinelli